Articolo pubblicato sul Manifesto: Un cinema che suona una musica differente


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Trailer – Ein Shams                Trailer – Hawi                  Trailer – Hawi 2

Nel settembre del 1985 Ibrahim El Batout uscì dalla facoltà di Fisica dell’Univ

Ibrahim at his home
Ibrahim at his home - Photo by Asmaa Youssef

ersità Americana del Cairo. Sicuramente non si sarebbe aspettato di entrare a lavorare quasi immediatamente nel mondo della comunicazione, della TV e del cinema. È innegabile che doveva avere una certa predisposizione nel DNA per la cinematografia, più una sensibilità fuori dal comune per poter spiegare tutta la mole di lavoro che ha prodotto in seguito. Nella prima parte della sua carriera è stato impegnato come corrispondente in Bosnia, in Kosovo, in Etiopia, in Guatemala e in Iraq girando documentari per emittenti televisive europee. Negli ultimi anni si è concentrato a girare film a sfondo sociale che descrivono un Egitto dimenticato dalle banali rappresentazioni del cinema ufficiale egiziano.

Ibrahim at his home
Ibrahim at his home - Photo by Asmaa Youssef

Ciò che contraddistingue i film di El Batout sono le inquadrature che ricordano il neorealismo italiano, abbinato a un tocco noir che ricorda un certo tipo di cinema francese. L’accostamento al periodo d’oro del cinema italiano non è forzato, poiché l’uso della gente di strada, gli permette di cogliere le sfumature e la mimica tipica degli egiziani. Non è un cinema prefabbricato quello di El Batout, o soggetto alla propaganda di regime, come certo il neorealismo nasseriano panarabo anni ‘50 e ‘60. Sotterraneamente il suo è un cinema di denuncia, malinconico e drammatico che ha la capacità di smuovere alcune parti dell’animo umano, a prescindere dall’estradizione sociale di ognuno.

Ibrahim at his home - Photo by Asmaa Youssef

Si scoprono tratti autobiografici dello stesso regista nel primo film Ithaki, caratterizzato da un racconto amaro, forse voglioso di inglobare troppi concetti e sfaccettature dell’Egitto contemporaneo. Essendo la prima opera è un peccato che gli si può concedere.

Ibrahim at his home - Photo by Asmaa Youssef

Si ritrova un Ibrahim El Batout più maturo in Ein Shams (L’occhio del sole), in cui unisce l’esperienza acquisita durante gli anni di lavoro nei documentari (nello specifico quelli in Iraq) e la profonda conoscenza della realtà egiziana: le manipolazioni elettorali e la corruzione dei candidati, l’inquinamento delle falde acquifere metropolitane, l’uso sconsiderato di antibiotici per l’allevamento industriale del pollame … in una mancanza di regole incondizionata negli aspetti della vita di tutti i giorni. Tutto condito con la storia struggente di Shams, una bambina di undici anni i cui genitori scoprono essere malata di leucemia. Shams ha un unico desiderio: poter vedere il centro del Cairo, ben  rappresentato nei film commerciali della TV di cui la bambina è affascinata: palazzi che ostentano una ricchezza di facciata, gli stessi costruiti dai colonialisti europei all’inizio del secolo scorso su un pezzo di deserto che nei decenni è divenuto il centro della città. Il film scivola sul contrasto di una periferia lontana e un centro storico a sua volta fatiscente (come Ibrahim con arguzia riesce a svelare), che solo l’immaginario di una bambina di undici anni può far tornare agli antichi splendori del secolo passato, e sul coraggio rassegnato di un padre che carica la bambina sul suo taxi per il primo (e anche l’ultimo) viaggio tra le strade surrealisticamente deserte del centro della capitale. Il film è una poesia triste che catapulta nella realtà romantica e spietata del Cairo.

In Hawi (2010) ambientato ad Alessandria, El Batout sapientemente descrive attraverso la sua poesia filmica i traumi della società egiziana. L’accentuazione dei colori nel film fa sembrare le scene come fossero delle mostre di arte contemporanea, come sospese, in una fissità ricercata. L’intreccio della trama è una denuncia palese della corruzione imperante nell’apparato di polizia egiziano e della sua spietatezza nell’eliminare figure scomode, un’anticipazione di quello che la rivoluzione avrebbe scoperchiato e mostrato.

Ibrahim El Batout ha lavorato molti anni nelle emittenti televisive internazionali, iniziando come tecnico del suono, per divenire negli anni cameraman, editore e regista. Ha lavorato per l’inglese TV-am, per la tedesca ZDF, la giapponese TSB e la francese ARTE. I suoi  documentari hanno vinto diversi premi: l’Honorary TSB (Giappone 1991), l’Axel Spring Award (Germania 1994 e 2000), l’ECHO International Award (EU 1996), Rory Peck (Inghilterra 2003), l’International Carthage (Tunisia 2008), il Golden Hawk (Rotterdam 2008) e il Golden Bull (Taormina 2008).

Alla domanda “Quali sono stati i film che più hanno influenzato il tuo lavoro? E quali registi?”. Ibrahim prende del tempo prima di rispondere, come se dovesse pesare bene le parole da usare. 

“Fare film è un’esperienza personale e in quanto tale preferisco non essere influenzato, ma se vogliamo elencare gli autori che prediligo e che forse hanno colpito maggiormente il mio immaginario filmico ce ne sono diversi: il polacco Krzysztof Kieslowoski, il messicano Alejandro Inarritu, il tedesco Wim Werders, il bosniaco Emir Kustoriza, gli egiziani Shain Youssef, Shadi Abdel Salem e altri ancora”.

“Nella presentazione clandestina di Ein Shams al Cairo, nel 2008, che lo stesso anno ha vinto il festival di Taormina, hai sottolineato che lavori senza una sceneggiatura, come mai?”.

“C’era un aspetto molto importante che ha segnato questa scelta: la mancanza di soldi. Però esiste un’implicita verità: non mi piace fare un film ponderando le scelte su un budget; l’importante è avere una telecamera, il personale, i luoghi giusti e l’editing. In un certo senso, ciò non mi permette di avere controllo dei film nel senso classico. Nel cinema normale, bisogna controllare tutti i particolari: la minima battuta, l’inquadratura, l’intensità della luce … per me l’unico modo per fare film era, ed è, non avere controllo, giocando con questa incertezza”.

Premio Doha Prize - Photo by Asmaa Youssef

“Un’ <<incertezza ricercata>>?”.

“Indubbiamente. Per me è fondamentale avere e ottenere che il film abbia un emotianal flow, anche se questo tipo di sentimento emozionale non è cinematograficamente corretto; la correttezza non è lo scopo che mi prefiggo di raggiungere. Non è importante che la recitazione aderisca a un testo, ma che lo spettatore senta qualcosa nel momento che assiste ad una scena, senza che debba essere dovutamente ricercata. Molti esperti direbbero che nei miei film ci sono imperfezioni filmiche, ma non è mia intenzione seguire categoricamente le regole del cinema”.

Ibrahim at his home - Photo by Asmaa Youssef

“Quindi meno sceneggiatura e più montaggio?”.

“Certo, ha un ruolo assolutamente predominante che, insieme all’editing del suono, fa il resto del film. Scrivo per sommi capi la storia che la pellicola dovrà seguire, poi si fanno riunioni con gli altri assistenti che mi aiutano durante le riprese, con gli attori e con le comparse. Una volta girato tutto il materiale di cui ho bisogno, si va in studio e si lavora al montaggio.

La scelta della musica (il lavoro della Massar Egbary Band nel caso di Hawi) è fondamentale, come lo è istruire al meglio i singoli attori su quello che voglio, ma questo accade sul set, scoprono la loro parte di volta in volta. Questo mi dà la possibilità di essere più libero”.

“I tuoi film sono incentrati su problemi sociali: l’alcolismo, il trauma del reduce di guerra, l’infibulazione della donna, malattie da inquinamento, radiazioni postbelliche … questioni che molta gente vorrebbe volentieri nascondere. Quali sono gli obiettivi che ti prefissi nei tuoi film? Le esperienze nei documentari ti hanno influenzato?”.

“Certamente, ma tutti gli argomenti analizzati nei film sono sensazioni molto personali. Tutto quello che rappresento è qualcosa che sento veramente e che ho conosciuto con mano, come il bombardamento dell’Iraq nella prima guerra del golfo con missili all’uranio impoverito”.

“Ti potresti etichettare come un artista impegnato?”.

Ibrahim at his home - Photo by Asmaa Youssef

“Non mi vedo come un artista, ma come un individuo che è impressionato da quello che lo circonda e possiedo l’abilità di esprimerlo attraverso i miei film, poiché lavoro come filmmaker dall’età di 23 anni. Il mondo intorno a noi non è giusto e non ha senso, come viviamo le nostre vite non ha senso. Queste sensazioni che avverto dall’esterno, si tramutano in migliaia di idee che ronzano per la mia testa: la loro pressione è così forte che l’unica maniera di farle uscire è attraverso i film, solo quando questi sono terminati mi sento pienamente libero e liberato, solo a quel punto riesco a ritrovare una certa armonia con me stesso”.

“Ithaki, film d’esordio, è emblematico del tuo stile: intrecci e unifichi storie che sembrano senza senso e nesso. È la tecnica del non controllo?”.

“In Ithaki sperimentavo, volevo capire se fosse possibile girare un film senza soldi. Si può. Può essere una nuova via che altri in Egitto possono seguire. È ingiusto che ci siano persone che mangiano dai secchioni dell’immondizia e allo stesso tempo si spendono 5 mln di lire egiziane per fare un film; per questo è importante avere la possibilità di girare in un altro modo e non dipendere esclusivamente dai soldi”.

“Hai vissuto dal ’91 al ’98 in Europa dove è più facile trovare finanziamenti, perché sei tornato in Egitto? Che importanza hanno il Cairo e Alessandria nei tuoi film?”.

Ibrahim at his home - Photo by Asmaa Youssef

“Sono nato e cresciuto in Egitto, ho un amore segreto per il mio paese. Amo ogni singola parte della vita egiziana, è qualcosa che non si può spiegare: quando sei innamorato lo sei e basta! L’Egitto è un paese così ricco, ma niente ha un senso qua. Andando in giro al Cairo, si può notare come la gente sia affettuosa, cordiale, bella, entusiasta, forte … e stupida perché è stata oppressa per lungo tempo e non si è mai ribellata per chiedere i propri diritti. Non l’ho mai potuto capire. Non posso capire come vengano costruite mega città-quartiere sulle coste del Mediterraneo o del Mar Rosso, città che costano miliardi di lire egiziane e che vengono usate solo due mesi l’hanno, per poi avere 3 milioni di bambini senza casa nel resto del paese! Il contrasto è così disorientante”.

“Si chiama neocapitalismo …”.

Ibrahim at his home - Photo by Asmaa Youssef

“Non so come si chiama”, ride con ilarità Ibrahim, per quanto ora conosca la giusta parola per etichettare l’ingiustizia, alla fine per lui non cambia il risultato, come per milioni di persone che vivono negli slum delle grandi metropoli egiziane.

“Hawi colpisce per l’intensità dei colori, si ha l’impressione di partecipare a una grande mostra di pittura post moderna, hanno un significato particolare? E perché hai scelto Alessandria come set? Esiste un filo conduttore che unisce tutti i paesi che si affacciano sul Mediterraneo?”.

“Con Hawi volevo creare un colore fotografico, un brokem momentche si contrapponeva ai personaggi, il contrasto dei colori era anche il contrasto della realtà. Nel film sono i silenzi che parlano, che raccontano storie e la verità di un Egitto che speriamo faccia parte del passato, anche se ci vorranno anni prima che le cose cambino veramente.

Riprese di Hawi

I silenzi sono un dramma che raggiunge il suo culmine quando l’anziano baffuto deve dire all’adolescente cieca che suo padre è morto, saranno le lacrime di lei a dire tutto, nell’impossibilità dell’uomo maturo incapace di comunicare dall’alto della sua esperienza, come intrappolato nel suo tempo. Il vuoto lasciato dalle parole sono una rottura completa contrapposta ai colori che riempiono l’immagine. Perché Alessandria? Perché simboleggiava l’aria cosmopolita e intellettuale che si respirava in Egitto all’inizio del secolo scorso, prima che il regime politico-militare avesse inizio nel 1952. Allora era una città internazionale, un punto d’incontro di artisti da tutte le parti d’Europa e del Medio Oriente; oggigiorno di quei tempi non è rimasto nulla se non qualche foto sbiadita e qualche palazzo in stile liberty”.

“Nei tuoi film la realtà pare immutabile, come il trascinarsi poetico di alcuni personaggi. Questo rappresenta una costante stilistica che in un certo modo rispecchia la realtà egiziana. Ma dopo la rivoluzione, come sarà  il cinema di Ibrahim El Batout?”.

“Sicuramente diverso, ma non così tanto. Lo vedremo nei prossimi film”.

“Come hai visto e vedi la rivoluzione? Te l’aspettavi o è stata una sorpresa?”.

Ibrahim at his home - Photo by Asmaa Youssef

“Non mi aspettavo niente di tali dimensioni. Il 25 gennaio ero a casa, pensavo che non poteva avere successo una dimostrazione organizzata su Facebook. Il 26 ho incominciato a dubitare del mio scetticismo; così sono andato a Tahrir, ma la piazza era vuota. Sono tornato il 27, e lo era ancora. La sera c’era una dimostrazione di fronte la sede del sindacato dei lavoratori, e lì, davanti alla porta d’entrata, c’erano persone che inneggiavano slogan per le libertà democratiche e contro il regime. Mi sono unito a loro, e per la prima volta ho potuto alzare la mia voce, gridavo: “Dimettiti dimettiti Mubarak!” e “I giovani vogliono il crollo del regime”. Quando ho iniziato a cantare quei motti, ho sentito che in me qualcosa stava cambiando: nei miei film dovevo sempre usare metafore per aggirare la censura, altrimenti la polizia mi avrebbe potuto sbattere in prigione, invece in quel momento, per la prima volta potevo gridare apertamente a gran voce tutto quello che volevo … è stato un considerevole cambiamento per me. Il 28 sono andato con la mia Ramzi al ponte Qasr el Nil, ma era pieno di lacrimogeni e ci siamo diretti verso l’altro ponte del 15 Maggio. Il giorno seguente l’esercito era entrato in piazza; quella mattina dovevo andare in Olanda perché Hawi veniva presentato al festival di Rotterdam. Sulla strada per l’aeroporto passando per il centro ho visto i carri armati e ho pensato che era finita, avremo avuto un coprifuoco per un lungo periodo e la rivoluzione sarebbe morta. Sono partito con una certa preoccupazione. Arrivato nei Paesi Bassi ho scoperto che ancora una volta mi sbagliavo. Cercavo di reperire informazioni di quello che stava succedendo in Egitto attraverso l’emittenti televisive; con la troupe volevamo tornare, ma non sapevamo come, non c’erano aerei, la situazione non era chiara e c’era molta incertezza”.

Ibrahim at his home - Photo by Asmaa Youssef

“Ho avuto lo stesso problema: sono tornato in Egitto quando tutti gli stranieri venivano rimpatriati. Avevo paura che mi avrebbero rispedito a Roma …”.

“Per noi la paura era il carcere! Il 9 febbraio sono andato immediatamente a Tahrir, e anche il giorno dopo. Ero emozionatissimo. Il 10 ho deciso di girare un film sulla rivoluzione. Ho pensato che moralmente non era giusto girare ancora nel mezzo della rivolta, ma mi sono detto di infischiarmene del falso moralismo. Così ho incominciato il 10 e l’11 il film che sto attualmente girando”.

Ibrahim at his home - Photo by Asmaa Youssef

“Che ruolo gioca la religione nei tuoi film? Mi spiego meglio, in Ein Shams ti sei soffermato molto sui cristiani in Egitto, come mai?”.

“A prescindere dalle mie credenze religiose, in Ein Shams non è la religione che m’interessa, ma la figura della Vergine Maria, poiché rappresenta l’iconografia della madre che vede suo figlio morire davanti  ai propri occhi … Esattamente, come accadeva e accade  in ex-Jugoslavia, in Iraq, in Palestina … in Libia”.

“Come mai questo tema ricorrente della guerra e delle ingiustizie?”.

“Ci sono molte ragioni, due sopra tutto. La mia precedente esperienza nel mondo dei documentari di guerra, mi ha fatto riflettere sulla brutalità e l’insensatezza di uccidere un’altra persona; quando si è spettatori dal vivo di questa realtà, è tutta un’altra cosa, ti cambia dentro. Inoltre nella guerra in Iraq del 1991, rimasi scioccato nel vedere soldati egiziani che catturavano quelli iracheni mentre molti di questi scappavano e si ritiravano impotenti sotto le bombe dei caccia americani”, beve un sorso di tè come a scacciare delle immagini ricorrenti che nessuna tisana potrà cancellare.

Referendum al Cairo - Foto di Asmaa Youssef

“E la seconda?”.

“La seconda è legata al ’98. C’era una grande rivolta nel quartiere dell’Abbassia del Cairo, andai per filmare. La polizia reagì brutalmente sparando sui manifestanti. Rimasi ferito al braccio e mi portarono immediatamente all’ospedale. Mentre i medici mi curavano vennero alcuni ufficiali che sequestrarono la pallottola estratta e la fecero sparire. Nessuna prova che potesse incriminarli, solo una cicatrice sul  braccio di un inviato che davanti al tribunale poteva essersela procurata in chissà quale modo”.

Ibrahim at Zad film agency - Photo by Asmaa Youssef

“Il 19 marzo si è tenuto il referendum in Egitto per gli emendamenti alla costituzione, eri per il sì alle modifiche?”.

“Quel giorno è stato molto importante per gli egiziani, a prescindere dal mio voto. Per la prima volta da secoli potevano esprimere la loro opinione, la voce delle persone contava. C’è stata una grande partecipazione, questo ha contato. Negli ultimi sessant’anni, la popolazione ha subito un lavaggio del cervello: doveva solo seguire e assecondare i dettami del regime. Per sessant’anni la gente ha acceso la TV la quale asseriva che il paese prosperava e che tutto andava bene, mentre invece tutto andava a rotoli. Il 19 marzo è stato solo l’inizio, ci vorranno mesi, anni, prima che gli egiziani si abituino alla realtà democratica, ma l’importante è che finalmente si sentono soggetti nella loro terra”.

Ibrahim at Zad film agency - Photo by Asmaa Youssef

“Anche se non sei un politico, pensi che la Turchia possa essere un modello a cui l’Egitto possa ispirarsi?”.

“La Turchia, l’Indonesia, l’Argentina, il Brasile … alla fine uscirà una ricetta tutta egiziana che si adatterà alla situazione del paese. Lo si vede già che sta succedendo, anche dentro gli stessi Fratelli Musulmani”.

“Cosa sta succedendo? E cosa c’entrano i Fratelli Musulmani esattamente?”.

“Il dibattito. Una mattina si alza un mullah dicendo che si andrà verso una maggiore occidentalizzazione, che perderemo i nostri valori e le nostre origini, che dobbiamo solo pregare … il giorno dopo se ne alza un altro che zittisce e discredita le parole del precedente. È il dibattito, che avviene anche dentro il movimento dei Fratelli Musulmani dove ci sono punti di vista divergenti, ed è significativo che sia così. Stiamo vedendo un nuovo Egitto, tra mille difficoltà, ma l’importante è cominciare!”.

Meeting at Zad film agency - Photo by Asmaa Youssef

“Che cosa pensi di tutti quegli attori famosi del cinema egiziano che, attraverso giornali o andando a Tahrir spronavano la gente a tornare a casa e lasciar perdere la protesta?”.

“Pensare a loro è solo una perdita di tempo, avevano tutto da perdere con la fine del regime di Mubarak. Preferirei chiudere il discorso qua”.

“Un ultima battuta sulla situazione politica internazionale: che cosa pensi di quello che sta accadendo nel mondo arabo e in Libia? E l’intervento dell’Occidente contro Gheddafi?”.

Meeting at Zad film agency - Photo by Asmaa Youssef

“Non riesco a spiegarmi perché sia successo contemporaneamente in molti paesi arabi. Ovviamente la Tunisia è stata la scintilla che ha reso possibile la rivoluzione in Egitto; se in 17 giorni siamo riusciti a far dimettere Mubarak, lo stesso può succedere in Yemen, in Bahrein, in Siria, in Libia … è un contagio. Il motivo principale della rivolta? Semplicemente questi regime hanno governato con l’oppressione e la tirannia per decenni, e le popolazioni arabe sono stanche di questo sistema. Hanno visto in televisione che era possibile cambiare i regimi; la gente in strada nei diversi paesi canta gli stessi slogan che venivano cantati in Egitto e in Tunisia, lo ripeto, è un contagio perché ogni paese arabo è affetto dallo stesso male. Le persone sono pronte per chiedere il cambiamento, e questo è positivo. Gheddafi? Stava bombardando e massacrando il proprio popolo, doveva essere fermato”.

Meeting at Zad film agency - Photo by Asmaa Youssef

“Premettendo che personalmente sono contrario alla guerra, come tu d’altronde, però secondo te, se non ci fosse stata la risoluzione dell’Onu e il successivo intervento del contingente internazionale, molto probabilmente Gheddafi avrebbe riconquistato tutta la Libia spargendo il sangue della propria gente. Pensi che conseguentemente una probabile vittoria di Gheddafi avrebbe potuto fermare i moti rivoluzionari nel mondo arabo?”. Prende un’impercettibile pausa, il lasso di un secondo per rispondermi.

“Probabilmente sì, poteva essere uno degli eventuali scenari e avrebbe dato adito ai presidenti di Siria, del Bahrein e dello Yemen di usare la forza per evitare la caduta dei loro regimi, allo stesso modo in cui stava facendo Gheddafi. Sarebbe augurabile che si dimettessero davanti all’evidenza della storia, ma hanno troppi interessi personali da proteggere per abbandonare il potere, come sarebbe giusto che sia”.

Vorrei lasciare Ibrahim El Batout allo stesso modo in termina il film Hawi, con questa canzone:

Sono diventato un giocoliere

Sono assuefatto ne tenere le mie lacrime quando il dolore cresce

Ho imparato a tirare fuori il pezzo di pane dalle costole della povertà

Ho imparato bene a nascondere la mia lacrima dentro il mio cuore, non importa quale …

Ho accettato di dormire con la testa penzolante in giù come un pipistrello

Perché mi sono abituato a vedere i miei sogni che scivolano via

Ho mollato e ho lasciato la polvere depositarsi sul mio viso intatta

Meeting at Zad film agency - Photo by Asmaa Youssef

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